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IL LAVORO DEL LUTTO di fronte al compianto di Guido Mazzoni
testo critico di Cristina Muccioli

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IL LAVORO DEL LUTTO di fronte al compianto di Guido Mazzoni

Massimo Lagrotteria

Chiesa di San Giovanni Battista, Modena

Presentazione: venerdi 13 settembre alla presenza dell'artista e dei curatori

mostra visitabile 13-14-15 settembre 2024

venerdi e sabato dalle 9:00 alle 23:00 domenica dalle 9:00 alle 21:00



 

IL LAVORO DEL LUTTO di fronte al compianto di Guido Mazzoni

Cristina Muccioli

 

Massimo Lagrotteria è consapevole, profondamente, del fatto che un’opera d’arte non è mai isolata, ma va letta in un contesto, con tutto ciò che la precede, che la influenza, e ciò cui darà seguito se sarà capace di un’innovazione significativa.

Un conto è constatarlo (sembra semplice buon senso, ma non lo è affatto, e occorre rifarsi a Otto Pächt per trovare l’autorevolezza argomentativa di chi alla storia dell’arte come disciplina scientifica ha dedicato la vita intera), un altro conto, si diceva, è esserne consapevoli. Solo se si è fatta propria da tempo questa idea della non isolabilità sigillata dell’opera, si accetta, come ha fatto Lagrotteria, di confrontarsi con un Maestro che dalla sua ha innanzitutto il tempo: si tratta di Guido Mazzoni, artista rinascimentale, e da sempre e quasi ovunque, per il solo fatto di essere antica un’opera è creduta insuperabile, e parla da sé, per sé e con sé: quale ingenuità…

Non si pecca di sopravvalutazione nel conservare intatta l’ammirazione per Mazzoni, comunque, perché venne citato anche da Giorgio Vasari che lo salvò sulla sua arca fiorentina.

Lagrotteria, invece, non ha inteso superare nessuno, ma trovare un innesco di espressività per parlare di anima, e immagini che potessero dialogare nello stesso luogo e nello stesso tempo: la chiesa di S. Giovanni Battista a Modena, durante il Festival della Filosofia 2024 per ArteSì, Galleria di Modena, su ideazione e proposta di Maria Teresa Mori, telescopica, sensibile e attenta cultrice di quella contemporaneità nell’arte che si sa erede e figlia.

Nella chiesa, singolarmente non addossata ad altri edifici, a pianta circolare di S. Giovanni Battista si rincorrono affreschi, cantorie, cori lignei, dossali di marmo, dipinti su tela del Sei e del Settecento, e sculture, tra le quali campeggia magneticamente Il compianto sul Cristo morto di Mazzoni, in terracotta (probabilmente un tempo smaltata e policromatica) iniziato nel 1479. Storicamente è quindi la prima opera al mondo con questo soggetto. Il dolore, lo strazio accompagnato al contegno di Maria, lo struggimento e per alcuni la disperazione urlata, sono stati invenzione artistica per esprimere vicariamente che cosa prova chi resta, chi è costretto ad assistere alla dipartita di chi ama incondizionatamente: come figlio, innanzitutto, ma anche come amico, e Maestro.

L’arte inventa ciò che gli stati d’animo chiedono, supplicano, per avere qualcosa e qualcuno con cui condividere, da cui sentirsi accolti nei momenti più traumatici della nostra vita.

Il pathos e il dinamismo di questo gruppo scultoreo sono apicali, come se i soggetti fossero stati congelati, impietriti nell’acme del proprio gesto sofferente, disperante, affranto. In qualche modo Mazzoni anticipa, non tecnicamente ma concettualmente, la cattura attimale della fotografia. Il corpo di Cristo deposto dalla croce è totalmente inerte nella più definitiva delle orizzontalità, la testa poggiata su una pietra che pare un piccolo monte, come lo era il Calvario durante il suo lungo supplizio.

Miriadi di dettagli in questo esempio eccellente di arte devota mirano a raggiungere tutta la possibile efficacia drammatica e patetica, tutta la teatralità, l’energia gestuale contratta delle bocche spalancate, delle braccia alzate, delle mani giunte saldate dalla tensione, degli occhi chiusi e strizzati nel pianto, tutto il realismo immaginabile calcato per catturare e mantenere l’attenzione dello spettatore come una preda.

Iustus dolor era l’espressione che sin dall’antichità precristiana si riservava al lutto per le morti premature, per quelle dei figli che precedevano i genitori autorizzati a urlare, a lasciare ogni contegno.

I volti dei convenuti attorno al cadavere di Cristo hanno una quotidianità, benché stravolta dall’emozione incontenibile, nella quale doveva esser facile per ogni fedele potersi riconoscere e immedesimare.

Se ne ricorderà ancora Antonio Consetti che nel Settecento dipingerà una Madonna con il Bambino, San Crispino e San Crispiniano protettori dei calzolai, la cui corporazione commissionò la tela per la chiesa. Il cielo, attraverso l’arte, giunge in Terra, si fa specchio immaginale dei mestieri, delle virtù, delle pratiche di chi appartiene all’ecclesia, originariamente l’assemblea popolare in cui i cittadini prendevano parola e si ascoltavano vicendevolmente.

Anche i dettagli, che possono apparire meri accessori secondari, fanno di queste sculture veri e propri ritratti più che simboli universali, dove fisiognomica e introspezione psicologica (anche se l’espressione è anacronistica per il periodo) conciliano la grande esperienza di ‘dipintore’ con quella di scultore e di cesellatore della malleabilità docile e generosa della terracotta che cambiava di stato passando per il fuoco dei forni e veniva anche dipinta senza esitazione per la mimesi della vita vera, dei corpi veri che andavano ricreati, copiati alla perfezione, quasi prelevati dal palcoscenico della vita per essere trasposti su un piedistallo, in un luogo sacro.

Pensando al Rinascimento e alla sua importante produzione scultorea facciamo riferimento immediato al marmo e al bronzo, dimenticandoci delle straordinarie qualità plastiche dell’argilla che permetteva un naturalismo espressivo proprio solo al disegno.

Basti guardare gli arnesi da lavoro appesi alla cintola di Nicodemo, le rughe che gli solcano il viso, le borse sotto gli occhi che allontanano lo stile di Mazzoni da ogni idealismo ritrattistico di illustri contemporanei come Sandro Botticelli, avvicinandolo invece ai mezzo-busti in pietra di epoca romana imperiale riservati ai senatori, immortalati con cruda fierezza nella loro sgraziata ma franca severità; e ancora, la corda annodata intorno alla vita di Maria, i capelli lunghi e ondulati di una Maddalena eternamente giovane che nemmeno qui si rassegna al velo, la saggezza e l’esperienza impressa nelle facce arate dei vecchi, anche quelli col ‘berrettone’, allusivo di appartenenza a un ceto medio-alto. Insomma, tutto pare accadere realisticamente sotto i nostri occhi, ma allo stesso tempo tutto è immoto, irrigidito, bloccato come il Cristo.

Tutta quella vita ossessivamente ricercata e restituita allo sguardo di centinaia di generazioni testimonia la morte, il dolore per la morte, l’ineluttabilità della fine.

Da qui Massimo Lagrotteria riprende la narrazione reinterpretando il Cristo senza vita, per averla donata e non semplicemente sacrificata, per poi approdare a un passaggio ulteriore, facendo della fine un inizio.

Dies natalis veniva chiamato dai nostri predecessori il giorno in cui moriva un credente, perché rinasceva come spirito e anima a un ‘esistenza altra, autentica, eterna. E questa ulteriorità recisa e negata dal Compianto mazzoniano è stata immaginata da Lagrotteria non come una presenza, non come una fantasia stereotipata di figurazione celeste, ma come vuoto e assenza. Un vuoto di corpi, di morte, di strazio, di afone urla, di pianti inconsolabili.

Il Compianto rinascimentale diviene un capitolo, un passaggio di una narrazione più vasta, più ampia, destinale, capace di evoluzione di contro alla terribilità, non certo negata, della parola ‘fine’.

Lagrotteria, come del resto Mazzoni, è primariamente pittore, con una cifra stilistica distintiva che si basa sulla sottrazione. Dopo aver sagomato e colorato i propri soggetti – quasi sempre figure umane altrettanto quotidiane ma isolate e assorte in un silenzio spaziale e cromatico che le rende monumentali, misteriose, incompiute e quindi disponibili al lazzo della lettura rapida – li vela con raschiature, spatolate a togliere, e solo allora li ri-vela nella loro essenziale enigmaticità che è poi quella, profonda, di ciascuno di noi nonostante le tante maschere coerenti che la vita ci invita a indossare.Il suo studio – un privilegio enorme sempre poter visitare la grotta di Lascaux degli artisti – reca segni

e tracce della disinvoltura con cui si dedica ora alla bi, ora alla tridimensione, ma sempre vivendo e trasportandoci con insondabile sensibilità nella quarta dimensione, in un altrove, in un al di là della superficie che parte dalla nostra percezione sensoriale, ma poi è esplorabile solo con il lume di Psyché.

Non c’è mai eroismo, gloria accesa, trionfo, armonia accademica e serena nelle sue composizioni, ma esitazione, emersione e sprofondamento, graffi e pertugi verso abissi altissimi o sotterranei. Forse anche per questo ha avvertito empatia e consonanza con il tema del Compianto, con cui parla per secondo, dopo cioè averlo ascoltato con gli occhi.

Sono passati 2024 anni, ma ancora oggi stentiamo a capire come un dio possa essere mortale.

Tutte le cosmogonie, tutti i miti occidentali hanno narrato di dee e dèi, ninfe e titani che non potevano morire, eterni nel loro Olimpo luminoso e imperturbabile da fame, sete, dolore, malattia, almeno sinché se n’è fatto discorso, racconto. Persino i supereroi della mitologia contemporanea come Batman non muoiono nemmeno quando proprio sembra siano stati condannati a farlo dal più inatteso e definitivo dei plot cinematografici. Gesù, il Cristo, invece, è contraddizione in essere. Vulnerabile, mortale, torturato, ucciso, sepolto; miracoloso, potente, divino, risorto. Questo iato profondo non riguarda solo i credenti, i fedeli, ma ognuno di noi proprio per il nostro ontologico dissidio esistenziale: siamo fragili, imperfetti, assegnati alla fine e al degrado fisico, ma pensiamo e concepiamo l’infinito – questa incommensurabile dimensione della nostra vita -, l’eterno, l’immateriale, lo spirituale, tra nuda vita animale fatta di impulsi, bisogni e istinti, e quella psichica fatta di attese, speranze, turbamenti, ricordi, vocazioni, ricerca inesausta di senso, di incontro, di dialogo.

Anche Lagrotteria sceglie la terracotta, la morbidità del tatto che modella, non dello scalpello che mutila e intaglia la pietra. Un materiale che per eccellenza filologica può rappresentare il Figlio dell’Uomo, come era chiamato Cristo, poiché ‘uomo’ nasce da ‘humus’, il terriccio umido e fertile adatto ad essere plasmato e a generare frutto. Il ‘generato non creato dalla stessa sostanza del padre’ è nato da una donna, essere temporale, esposto, cagionevole, di per sé indifeso.

Il Cristo di Lagrotteria è un uomo minuto, emaciato, smagrito, senza i muscoli torniti e in rilievo nel corpo violato ma perfetto, che tanta scultura ha voluto assegnare al corpo divino, che pure – contraddittoriamente si è detto – era. Nonostante l’emersione delle costole non avvolte da alcuna pinguedine, il ventre ha un lieve rigonfiamento non forgiato dall’esercizio fisico. Il volto, dettagliato come quello di Mazzoni, è il ritratto di un pensiero, è nato dalla mente e dalle mani dell’autore eppure è familiare. La rima cigliare delle palpebre è così ben delineata che ci si aspetta potrebbe riaprire gli occhi, e incontrare i nostri.

Il viso chino ma visibile esprime mitezza e persino gentilezza, invece che sfinimento, una certa serenità per ciò che doveva compiersi e si è compiuto, per ciò cui il Figlio dell’Uomo non si è sottratto pur avendo avuto tanta paura, umanissima paura, da sudare sangue.

Questo Cristo non è stato deposto, è ancora in croce e resta verticale. Le braccia allargate sono piegate leggermente all’interno e sembra ci accolgano in un abbraccio immenso. Chiama a un’umana e ultraterrena vicinanza, a una partecipazione sincera, ispira addirittura tenerezza invece che prostrazione e angoscia implacata.

Si muore soli, si ripete sempre, ma è solo anche chi resta e assiste impotente alla scomparsa di chi ama, di ha caro. Lagrotteria però sorprendentemente scompagina questa prospettiva involuta, usa il corpo del suo Cristo a contrappeso, in contropiede alla disperazione, alla rinuncia ad ogni ulteriorità di contatto rescisso tragicamente, di coappartenenza a un cammino, a un destino.

Qui è la divinità, la grandezza scandalosa di un uomo il cui corpo martoriato ricambia con un gesto di amore, di amicizia, di accoglienza.

Quell’abbraccio, non il corpo orizzontale e vinto, quella composta pacatezza e delicatezza dei suoi lineamenti, quell’assenza di pigmenti saturi esibiti a raccontare il sangue e le ferite, sono traccia di anima, quella che ha abitato il corpo e ancora è capace di dire, evocare, invitare, far sopportare la vista dell’insopportabile, dell’inguardabile.

Ecco che la solitudine dolorosa, distaccata e isolata del morto tra i vivi che il Compianto incarna, diventa con quest’opera di Lagrotteria una solitudine creatrice, feconda, in una parola viva, capace di entrare discretamente, segretamente, silenziosamente, in relazione intima con chi le sta dinnanzi. “Nessuno me la toglie (la vita); io la do a me stesso”, dice Gesù attraverso l’evangelista Giovanni , tracciando una linea netta tra il sacrificio autolesionista e passivo, e il gesto del donarsi che trova in sé stesso, senza altro chiedere e barattare, ogni remunerazione, ogni risarcimento, il perfetto compimento.

Il vero luogo natio”, scriveva Marguerite Yourcenar nelle Memorie di Adriano, “è quello dove per la prima volta si è posato uno sguardo consapevole su stessi (…)”.

Così questa morte può essere anche nascita, e promessa di rinascita, intercettando, accanto a momenti di sofferenza e solitudine aspra e persino aggressiva che tutti abbiamo vissuto, un desiderio e una premessa di colloquio interiore.

Il corpo scultoreo di Lagrotteria è lacerato in alcune parti delle braccia e delle gambe, e svela una sorta di scheletro fatto pezzi di ferro raccogliticci e assemblati in modo da svolgere una coerente funzione anatomica.

Non è un gigante dai piedi di argilla, questo Cristo in croce, ma un dio di argilla umana degradato e cinicamente tradito, svenduto e condannato crudelmente, con un’inattesa interiorità fortissima, resistente allo sgretolamento e alla consunzione della carne, alla cui importanza, seppur provvisoria, pure lo stesso Gesù risorto e apparso alla cena di Emmaus si riferisce secondo il Vangelo di Luca: “Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho”.

Nel materiale metallico di risulta recuperato da un arrotino, come pietra di scarto che diviene angolare, affiora l’effigie di un volto, minuscolo ma casualmente ben delineato, di un volto. Ogni artista prova sorpresa dinnanzi alla sua opera, che sempre lo sopravanza.

Un dettaglio che fa trasalire anche lo spettatore, qualcosa che somiglia a un avvenimento che nasce e si svolge nel tempo dello sguardo dedicato all’opera d’arte, più che a un semplice particolare. Questo Cristo è continuamente generatore, cova vita e pensiero, e mozioni e stupore dentro di sé, come un seme di senape, minuscolo eppure capace di portentosa e munifica crescita. Un punto soltanto, visibile solo da vicino – ma chi si accosta da vicino al cadavere di un Dio, se non chi è stato inviato a farlo da un abbraccio? – ma sfolgorante come il punctum di Roland Barthes coincidente con quel che di un’immagine, alla lettera, mi punge, mi colpisce emotivamente, mi coinvolge.

Suonano rintocchi cristallini della dialettica ‘scarto -sublime’, ‘umano – divino’, ma una cosa più di tutte conferisce all’opera intera una risonanza peculiare: mentre guardiamo, siamo guardati. È come se il Cristo avesse un occhio aperto poco sopra il cuore, mentre i suoi sono chiusi. Dalle sue braccia che, scalfite e spolpate, si dischiudono come in volo, in un abbraccio, prosegue il movimento che siamo invitati a fare verso la terza parte del lavoro.

La seconda, consiste appunto in questo vuoto, un vuoto pregno di simbolismo per due ragioni: perché è vuoto di morte, di corpo esanime appeso, e capace – nel senso etimologico di capax che è capiente – di trasformazione, di trasmutazione del nostro essere di fronte alla morte, per la morte in quanto umani e mortali, in un essere sgravati dal peso sepolcrale del lutto.

Questo nostro cammino fisico che è ardente allegoria del lavoro spirituale, chiamato anche elaborazione del lutto, ci conduce al sollievo immenso di una croce senza corpo, di un corpo liberato dalla trafittura dei chiodi, dal fare una cosa sola con l’inerzia del legno, di un corpo affrancato che è diventato ‘altro’, non ‘niente’.

Lagrotteria prevede e progetta il vuoto non circoscrivibile, percepibile dai sensi, come la condizione necessaria per la metamorfosi dell’isolamento in solitudine, cioè dall’isolamento del sepolcro - quello in cui ci sentiamo relegati ogni volta che siamo ammalati, traditi, abbandonati o in lutto - in solitudine operosa, silenziosa, contemplante, quella che ci fa intuire e percorrere il sentiero debolmente luminoso nel buio per sperare, ancora e di nuovo, e che solo può nascere dalla scintilla dell’incontro, dell’abbraccio.

Sperare è il lavoro prezioso dell’anima, è imparare a trovare un disegno possibile di senso quando divorati dal caos e dal frastuono dell’insensatezza, che ci farebbe cedere alla bruttura morale, all’indifferenza, alla perdita di ogni valore.

Se niente resta, se niente conta, perché impegnarci a tessere legami professionali, amicali, amorosi, filiali, perché impegnarci nelle nostre attività, nello studio e nel lavoro… Sono domande che ogni essere umano, in ogni tempo, deve avere affrontato, e spesso eluso, subendole opacamente. Solo passandoci attraverso, però, in un vuoto meditativo e leggero, assorto e disponibile, che consenta loro di sgorgare, possiamo individuare e distinguere ciò che è essenziale da ciò che è accessorio, ma spesso sopravvalutato.

Ecco allora che della morte, ineluttabile e ineliminabile certo, non rimarrà che un segno inessenziale, un’indicazione incompleta, una croce finalmente vuota.

 

1. Otto Pächt, morto nel 1988, è stato un esponente di spicco della Scuola di Vienna, città in cui poté fare ritorno dopo essere stato scacciato dai nazisti. Nel suo “Metodo e prassi nella Storia dell’arte” (Einaudi, Torino, 1994), Pächt argomenta della necessità di inserire un’opera nella sua sequenza genetica, individuando i rapporti di dipendenza, risonanza e trasmissibilità.

2. Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani, 1568, Firenze, V pag. 549in riferimento al Compianto sul Cristo morto realizzato da Mazzoni a Napoli, presso la Chiesa di S. Anna dei Lombardi: «[...] uno scultore [...] chiamato Modanino da Modena, il quale lavorò al detto Alfonso una Pietà con infinite figure tonde di terracotta colorite, le quali con grandissima vivacità furono condotte, e dal re fatte porre nella chiesa di Monte Oliveto di Napoli, monasterio in quel luogo onoratissimo; nella quale opera è ritratto il detto re inginocchioni, il quale pare veramente più che vivo; onde Modanino fu da lui con grandissimi premii rimunerato.»

L’altra testa di vecchio di G. Mazzoni, su piedistallo, è conservata a Modena alla Galleria Estense

La formula è recitata nella preghiera del Credo,

Si pensi ad esempio ai Cristi crocifissi di Donatello, di Brunelleschi, di Bernini, Michelangelo

Gv. 10,18

Adamo, il primo uomo per la Bibbia è nel Libro del Genesi II 5,7 adham, ovvero suolo rosso ocra da coltivazione.

Lc, 24:39

Mc, 4, 26:34

Roland Barthes, La camera chiara, Einaudi, Torino, pag. 43 “Io sono talvolta attratto da un particolare. Questo particolare è il punctum, ciò che mi punge (…).

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