ARTESI
Arte Contemporanea
via Fonte d'Abisso, 10 - 41123 Modena
Tel: +39 338 6764679
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festivalfilosofia 2017 Le gallerie d’arte per il festivalfilosofia
FARE E DISFARE. L'UMANA EPOPEA DELLE TRAME
a cura di Cristina Muccioli




Collettiva con i lavori di Gaia Clerici, Valeria Manfredda, Luisa Turuani. La mostra sarà composta da 10 opere bi e tridimensionali, scultoree, installative e pittoriche. Esse interpretano il tema della tecnica come arte del fare e del dis-fare; come inaggirabile medium del nostro sguardo, come aspetto problematico ma fondante, quotidiano, coessenziale alla vita umana e alle sue pratiche con i riti, i gesti minuti precisi e ripetuti, anche quando volti a restituire una caratteristica della propria identità.
Tutti i lavori sono accomunati dal fil rouge dell’intreccio e dell’azione dell’intrecciare, a segno di una pratica tecnica (o di una pratica tout court) concreta, atavica ma anche potentemente metaforica del nostro vivere. Più che vivere nell’età della tecnica, ci siamo nati, costituendoci e confermandoci come genere Homo.
Gaia Clerici (Milano, 1970). Attualmente frequentante l'accademia di Brera si occupa dal 2000 di opere in lana infeltrita secondo metodi arcaici. Incentra la sua ricerca sul “corpo -materia“ femminile coerentemente alle potenzialità espressive del materiale prescelto.
Valeria Manfredda (Magenta,1985) vive e lavora a Milano. Ha esposto a Mantova, Pavia, Isola Comacina (CO) ed Empoli nella mostra L'oggetto e l'immagine, Filarete Art Studio, a cura di Angela Sanna. A Milano ha partecipato a diverse collettive tra le quali il Festival Mondiale dell'acqua per EXPO, Castello Sforzesco; Step Art Fair, Fabbrica del Vapore; Museo dei giovani artisti, Idroscalo; Darwin Day, Accademia di Belle Arti di Brera, a cura di Cristina Muccioli. Nel 2017 si tiene la sua personale Spazio contemporaneo reticolare a Milano.
Luisa Turuani (Milano, 1992). Particolarmente interessata al concetto di limite come spazio abitabile, cerca di interrogare le parentesi della quotidianità in quanto stimolo per una creatività leggera e disincantata, critica e ironica. Nel 2016 partecipa a una residenza artistica in Cina; da questa esperienza nascono le mostre collettive intitolate Syncronicity ad Hangzhou e Yuliang. Tra le mostre collettive si ricorda nel 2016: Traparentesi: Leggerezza a cura di OUT44, Pensieri incrociati a cura di I. Chiodi; nel 2015: Nel deserto cresce la ginestra presso la galleria R. Fabbri, 00:00 a cura di S.M. Frassà. Espone come finalista alla terza edizione del premio Cramum nel 2015 e alla quarta edizione del Premio Ricoh nel 2014.
Cristina Muccioli (Milano, 1968) è una critica d’arte e curatrice, anche in ambito internazionale. Insegna Etica della comunicazione all’Accademia di Brera, dove tiene anche seminari di Estetica. Si concentra sugli intrecci tra arte e scienza, antropologia e filosofia.
Dal 18 settembre all’8 ottobre 2017 la mostra rimarrà aperta con i seguenti orari:
dal martedì al sabato: 10.30 - 12.30 e 16.30 – 19.30
Galleria ArteSì
Via Fonte D'Abisso, 11
41123 Modena
Tel.: 338 67 64 679
www.artesimodena.com
Scrive sulla mostra Cristina Muccioli:
Il titolo “Fare e disfare” è stato così congegnato per alludere a una pratica non specifica né particolarmente affinata, ma piuttosto disinvoltamente agita in un senso come nell’altro, dal genere umano.
Con ‘epopea’, poi, si allude allo sprofondo nel tempo e alla immensa complessità che le attività degli uomini, di noi uomini, hanno intrecciato, in-tramato e ordito tra loro.
Le opere di tre artiste, Gaia Clerici, Valeria Manfredda, Luisa Turuani, si propongono di offrire per sintesi simbolica una pista narrativa feconda, intricata e affascinante, della nascita e dello sviluppo delle arti, dei mestieri, degli intrecci delle infinite pratiche che ci siamo scambiati migrando e meticciandoci, divenendo stanziali e tramandandoci, che chiamiamo ‘cultura’.
L’essere umano, animale planetario senza stretti vincoli ecologici, non specializzato e sprovvisto di un habitat suo, ha colonizzato tutti gli ambienti e tutti i correlati climi, dalle latitudini artiche a quelle equatoriali, adattandovisi prima e poi adattando essi a sé con un processo che chiamiamo antropizzazione.
Basti pensare che proprio noi Homo sapiens, usciti dall’Africa a partire da duecentomila anni fa, ci siamo trovati quarantamila anni fa a istoriare le caverne con pitture rupestri di squisito e sbalorditivo realismo a Sulawesi in Indonesia, e quindicimila anni dopo a cacciare un Mammut sulle sponde del mare Glaciale Artico passando dalla savana alle distese di ghiaccio e neve.
Indumenti, armi, cooperazione di gruppo, buona organizzazione negli accampamenti, linguaggio articolato hanno reso possibile una tale, irripetibile capacità di adattamento.
Si può certamente affermare che la tecnica e l’uomo sono coestensivi.
Attorniati quotidianamente come siamo da discorsi cupi e allarmistici sulla disumanizzazione dell’uomo da parte della tecnica, come se essa potesse auto costituirsi, crearsi da sé, e decidere delle sorti altrui, troveremo forse strano questo modo di procedere con il ragionamento sull’umanità della tecnica, come caratteristica peculiare, essenziale dell’animale uomo.
Invece che pensare alla tecnica da una parte e separatamente all’uomo dall’altra, ci si riferisce a una originaria e assoluta coincidenza dei due termini. Non si intende però essere provocatori, né tantomeno polemici. Nemmeno si vuole intonare un discorso in difesa della tecnica, poiché la si tratterebbe sempre come a sé stante.
Quel che mostra lo studio della nostra storia, della nostra evoluzione, è che non si dà umanità senza tecnica. E ancora, laddove c’è tecnica c’è umanità.
È lo stesso Vangelo, sorprendentemente, quello di Marco (capitolo VI), che definisce Gesù “o tektòn”, il tecnico (nell’accezione di falegname, carpentiere, costruttore di oggetti strumentali).
Il verbo divino incarnato, il Figlio di Dio che si fa uomo, è un tecnico. Il logos del dio, è strumentale.
Retrocediamo ancora, per balzi certamente vertiginosi. Per dirla con Giorgio Manzi, quella dell’evoluzione umana è un grande racconto, reso possibile dallo studio più rigoroso e condiviso di un’imponente raccolta di dati.
È ad oggi pienamente condiviso dai paleoantropologi che la comparsa dei nostri antenati bipedi sia avvenuta nell’area della Rift Valley in Africa centro orientale intorno a sei milioni di anni fa.
Al Paleolitico inferiore risalente a due milioni e mezzo di anni fa quando il clima subì un cambiamento drammatico contraendo ulteriormente le zone forestate dove tuttora sta la maggior parte degli altri primati, risale la tecnologia più arcaica.
Essa consiste nel ciottolo scheggiato in parte e nelle prime amigdale (pietre a forma di mandorla) bifacciali, cioè lavorate su entrambe le superfici.
Se già individuare una pietra per scheggiarne un’altra da impiegare con la versatilità più varia indica la presenza di un pensiero ricorsivo che si manifesta attraverso lo strumento prodotto, la scheggiatura su entrambe le facce dell’amigdala, non strettamente funzionale al miglioramento dell’uso litico, suggerisce un’eccedenza, un’attività non necessariamente mirata ad ottenere un miglioramento prestativo del proprio prolungamento del braccio e della mano, ma se mai a soddisfare un’esigenza di simmetria, che dai tempi dei Greci classici chiameremo armonia.
Ebbene anche in tempi per noi oggi così remoti, inimmaginabili senza l’apporto della scienza delle nostre origini (o paleoantropologia) e dei suoi meticolosi rinvenimenti fossili, studi delle molecole estratte, del DNA e della morfologia delle ossa, la tecnica si mostra evidente testimone della nostra umanità, del nostro ingegnarci nel sapercela cavare proprio per ciò per cui non siamo stati previsti: non abbiamo una dentatura tale, per esempio, per lacerare la carne né per sminuzzare semente coriacea. Ci siamo avvalsi di protesi, di pietre, lavorando le quali come ha spiegato esemplarmente l’etnologo Andrè Leroi Gourhan, abbiamo vieppiù modificato la nostra mano specializzandola, e contemporaneamente abbiamo avuto in cambio le circonvoluzioni cerebrali sempre più complesse.
Il che significa che non abbiamo avuto una geniale idea inventando asce, coltelli e bastoni, ma che proprio sollecitati dall’uso dei primi rudimentali manufatti (chopper) siamo arrivati a trovarci provvisti di un’attrezzatura salvifica per la sopravvivenza, con addirittura un elemento decorativo in più.
Comincia qui a profilarsi la coesistenza tra capacità di astrazione e simbolizzazione, e quella pratica di trasformazione della materia. Il raccordo tra questa storia profonda, appena accennata in poche righe per milioni di anni, e la nostra, è proprio la tecnica, cioè la pratica di infinite pratiche tramandate e affinate, sino ad arrivare ad includere il macchinario più sofisticato del Cern di Ginevra: ricordiamo, però, che siamo partiti da un ciottolo scheggiato, da un bastone tramutato poi in lancia affilata, in canna da pesca, in supporto per la deambulazione.
Nei lavori presentati dalle artiste Gaia Clerici, Valeria Manfredda e Luisa Turuani, si evoca della tecnica rispettivamente assenza solo apparente di mezzi e strumenti nella produzione di riti arcaici e ancora attuali, molto condivisi e quotidiani; la centralità della pratica della tessitura a partire dalle epoche più antiche sino ad oggi, con ‘resti’ tanto differenti quanto simili soprattutto metaforicamente (le reti e la rete, intesa come web); l’attività del guardare, pratica insita nelle nostre stesse potenzialità biologiche, quindi ‘naturali’, mediata con ‘naturalezza’, ovvero con consuetudine e continuità sempre più assidue, da filtri tecnologici come l’obiettivo fotografico attraverso cui produciamo immagini - le fotografie - che finiamo per percepire non come prelievi di realtà attuati da una particolare, singolare predisposizione e sensibilità, attenzione o disattenzione e abilità manipolativa di chi scatta, non come immagini parziali di mondo, ma come il mondo stesso.
Fraintendimento portato alle estreme conseguenze da parte di Turuani, che inquadra scatti fotografici attraverso la lente di un ulteriore obiettivo e ce le presenta duplicemente incorniciate, mediate, eppure recanti segni di immediatezza percettiva data dalla nostra abitudine non a guardare, ma ‘guardare attraverso’, aspetto affrontato anche da Manfredda in uno dei suoi lavori che evoca il punto di fuga oggi ‘in fuga’ dalla rappresentazione, della prospettiva artificiale fiorentina, o tecnica prospettica in auge sino al Novecento.
Tutti i lavori sono accomunati dal fil rouge dell’intreccio e dell’azione dell’intrecciare, a segno di una pratica tecnica (o di una pratica tout court) concreta, atavica ma anche potentemente metaforica del nostro vivere che non è dicibile, definibile e nemmeno narrabile a prescindere dalle tecniche in cui siamo iscritti, implicati storicamente e socialmente o, per dirla altrimenti, culturalmente.
Clerici recupera tecniche di tessitura primitive utilizzando lana grezza, non trattata, ma tosata e ‘pestata’, impregnata di vividi pigmenti naturali. Ne esce un tessuto particolarmente plastico, spesso e corposo, in bilico tra la bi e la tridimensionalità. Si può dire che l’artista scolpisca la lana, a mano, con una tecnica di bagnatura e massaggio di origine remota. Alcuni scampoli evocano suggestivamente la pietra e il ghiaccio, altri la lava incandescente, altri ancora la sabbia o la fibra del legno.
Prima della tecnica della tessitura con arcolaio e fuso, la lana veniva infeltrita e compressa. Il feltro, ottimo isolante da freddo e umidità nelle intemperie, ne è la traccia più conosciuta. Il suo potere protettivo, anzi salvifico, è stato omaggiato da uno dei più avanguardistici Maestri dell’arte contemporanea come Joseph Beuys, che nel 1970 realizzò Felt suit (Abito di feltro).
Durante la seconda Guerra Mondiale i Tartari lo trovarono in Crimea semi congelato, precipitato con il suo aereo bombardiere della Luftwaffe durante una tempesta di neve. A salvarlo dall’assideramento furono impacchi di grasso e panni di feltro ad avvilupparlo come in un bozzolo.
Curiosa la coincidenza del termine felt, feltro, con il passato di feel, sentire, avvertire. Per Beuys il feltro, e per tutti noi attraverso la sua opera, divenne emblema di energia restitutiva, di calore avvolgente, di alleanza naturale tra corpi, laddove però la naturalità è intessuta - il caso di dire - con la tecnica di lavorazione della fibra animale.
A maggiore sottolineatura dell’interazione trasformativa delle pratiche umane, Beuys letteralmente confeziona un abito maschile, con giacca e pantaloni. Nel 1974, con I like America and America loves me, l’artista tedesco rievoca il potere vitale racchiuso nella materia attraverso una performance in cui, fasciato da coperta di feltro lasciò che un coyote lo mordesse e strattonasse senza conseguenze né necessità di difendersi, per arrivare poi a stabilire un rapporto di fiducia e cooperazione con l’animale selvaggio, caro agli sciamani dei nativi d’America. Tra tanta spontaneità di relazione uomo-animale soffocata e distorta, secondo Beuys, da secoli di domesticazione predatoria e irrispettosa, la tecnica originaria della lavorazione della lana così come quella della legatura, del fare i nodi alla ‘coperta di difesa’, è tacita e sottintesa condizione alla riuscita della performance.
Clerici, invece, recupera l’eccedenza estetica di una materia con espliciti fini funzionali. Affrancandosi da ogni riferimento a oggetti utili e quotidiani, ne viene isolata e magnificata la bellezza. La lana infeltrita - talvolta impastata con fili metallici - si fa arazzo, bassorilievo da parete, cromia sapida o sfumata, immagine tattile, forma pura in cui tutta la densità storica che la precede sembra affiorare alla superficie con addensamenti di rugosità, convessità, concavità, levigature.
Turuani rende implicita l’indissolubilità, l’inestricabilità del nostro agire quotidiano nelle sue più naturali funzioni (quella di vedere e di guardare) con i dispositivi fotografici ormai inseparabili anche da oggetti incongrui come i telefoni, che maneggiamo con grande familiarità, ma che non per questo sono ‘innocenti’.
L’occhiolino del telefono cellulare spia dentro quello di una macchina Reflex per fotografare un oggetto, uno scenario, mischiando disinvoltamente bassa risoluzione ad alta. Ne ricava scatti della città di Milano del formato delle cartoline, 10 x 15, che ci distraggono dal sospettare una manipolazione.
Ciò che per noi è coincidente con il reale, fedele duplicazione del mondo, copia perfetta, è invece ritaglio di un quadro molto più ampio, particolare selezionato da uno sguardo e filtrato da un complesso, quanto invisibile, apparato tecnico. Il nostro stesso atto di guardare è stato educato, o addestrato quando non c’è consapevolezza, a inquadrare, a sezionare in porzioni il visibile ignorando il contesto, il contorno. “Il turista”, conferma Turuani, “fotografa senza guardare realmente nulla”. Mettiamo a fuoco, e al contempo eliminiamo, sfuochiamo la complessità e l’ampiezza in cui si situano cose e azioni.
L’artista rappresenta simbolicamente, inoltre, l’essere costantemente invischiati nell’ambiguità del confezionare un filo spinato intrecciando fili d’erba.
La violenza respingente che evoca di primo acchito la visione del filo spinato nato dal design della guerra per separare costruttivamente, ferire e occludere passaggi, è contraddetta dall’uso volutamente incongruo e improprio di un materiale non solo naturale (anche il ferro lo è) ma anche depositario di sofficità, di fertilità e nutrimento. La tecnica manipolativa cambia la natura delle sostanze e degli scopi.
Un filo d’erba tenerissimo può diventare pungente, trascolorarsi in accenti metallici e argentei, essere capace di pungere, di dissuadere l’avvicinamento. Attraverso una semplicissima - quanto certosina e doviziosa - tecnica di intreccio, si instaura un falso percettivo, un equivoco sostanziale, un trucco, un trompe l’oeil in cui tatto e vista si contraddicono fatalmente. La tecnica non è rappresentata ingenuamente, ma in tutta la sua potenzialità discorsiva e manipolativa del reale. L’arte si fa monito silenzioso a dedicare più attenzione a quanto percepiamo, interrogandoci genealogicamente sulla natura degli oggetti.
Fare un intreccio di fili d’erba implica un procedimento che procede dalla preliminare raccolta e cernita dei fili, dove le mani fungono da protesi incorporata del falcetto e poi dell’avvitatore per attorcigliare il filo spinato.
Tale attività è tecnica e si avvale di un metodo preciso, ma al contempo così semplice da favorire la ripetizione meccanica del gesto, come un mantra non vocale, ma amanuense.
Si intrecciano in un groviglio caotico, nervoso e al contempo leggero, quasi infantile, i segni fatti con la penna biro su fogli di carta velina bianca.
Le linee di colore svagatamente ricalcano le rughe che il tempo ha inflitto all’epidermide di cellulosa, trasformandola in una mappa, in una citazione della nostalgia del dominio cartografico bidimensionale del mondo, ora che è esploso in una globalizzazione inafferrabile. Turuani mappando e cercando un orientamento (im)possibile, disegna dedali, dal greco daidalon, che in greco evocava sì i labirinti ma anche i veli leggeri di fanciulle danzanti.
Manfredda, infine, utilizza il gesto dell’intreccio realizzando un telaio di sapore arcaico (a partire dal titolo, Penelope, emblema eterno del fare e disfare di chi possiede una tecnica) di grande dimensione su cui si articola un tessuto fatto di fibra ottica luminosa, la cifra della nostra più attuale contemporaneità.
La rete, da quella formata dai fili intessuti sapientemente dalle mani femminili, passando per quella da pesca degli ancestrali cacciatori - raccoglitori nomadi sino alla net dell’era del web, è il simbolo dell’intreccio che più ci denota storicamente sia come pratica sia come produzione di oggetti, inclusi quelli immateriali.
Sconforto, disorientamento, timore ‘digitali’ sono comprensibili, e non vanno liquidati con sufficienza perché siamo stati privati - lo spiega magistralmente Franco Farinelli - delle categorie di spazio e di tempo, due dimensioni che per Immanuel Kant erano (e sono) parte stessa della nostra possibilità e capacità di organizzare l’esperienza del mondo, la nostra, quella vivente e incarnata.
Con un click, senza impiegare anni a percorrere i più vasti spazi, possiamo contattare qualcuno in un altro continente, spostare ingenti flussi di denaro e di dati informativi. Tutto accade simultaneamente, contemporaneamente a tutt’altro, il che certamente comprime i tempi di meditazione e abitudine all’elaborazione, al metabolismo critico degli avvenimenti sacrificati all’imperio della velocità.
Non è tutto, però.
Ragione strumentale e ragione contemplativa si intrecciano, si ibridano, si nutrono a vicenda. Leopardi non può scrivere L’infinito senza avvalersi della tecnica di scrittura, e della pratica di mille pratiche (inclusa quella mercantile) che gli rendono disponibile carta e penna (d’oca).
Oggi la rete raccoglie e connette, mette in circolo e al contempo trattiene, come il ‘sito’ che è la nostra testa, la nostra mente. Pensiamo infatti alla rete anche in relazione alla nostra attività cerebrale, in cui parliamo di rete neuronale, un miracolo connettivo della nostra corteccia percorsa da onde elettriche.
L’elettricità, infatti, è la materia stessa del pensiero, oltre che l’energia senza la quale il nostro vivere, il nostro abitare, non sarebbero oggi possibili nella maggior parte del pianeta.
ConNe(c)t, titolo di uno dei lavori di Manfredda, annuncia compiutamente l’inedita, potentissima possibilità di entrare in relazione e diffondere, scambiare e condividere conoscenza che da qualche decennio informa, e forma, la nostra umanità.
La tessitura in greco arcaico era detta krisis, da cui l’italiano crisi in una delle sue accezioni obliate ma non per questo ancora capaci, se risollecitate, di interpellarci fruttuosamente. Per tessere una donna doveva innanzitutto decidere quali fili utilizzare e quali scartare, quali appaiare a seconda del colore, della tenuta, della lunghezza. Decidere implica sempre un momento di crisi. Per tessere nuovamente, però, eludere questo momento di scelta accorta e responsabile, di giudizio accorto, non può che portare a conseguenze negative.
Tessere, fare rete, è pericolo, certamente, ma anche grandiosa occasione.
Cristina Muccioli
Critico d’arte e curatore, Docente di Etica della Comunicazione presso l’Accademia di Brera.





