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SOPRAVVIVERE A PICASSO

Andrea Saltini

dal 09.06.2018

«Andrea Saltini ha avuto tempi metabolici e di sedimentazione geologici. Adesso, il suo gesto su tela o su carta, le sue visioni, vanno più veloci della luce elettrica. Andrea è un cortocircuito vertiginoso tra memoria, sapere, sentimenti, pungoli emotivi, urgenze espressive. Niuno mai come costui toccò i colori, scriveva quel toscano-centrico irredento di Giorgio Vasari a proposito di Correggio. Lo avrebbe scritto anche di Saltini, che pure predilige i bianchi e i neri, perché li reinventa da virtuoso cercando i grigi, i suoi, come Yves Klein ha dato la caccia al blu. Titolo ironico e leggero – Sopravvivere a Picasso – a contrappeso di quella densità di contenuto e di forma che contraddice e tacita la prognosi infausta sulla figurazione italiana. Qui si fanno i conti con i giganti, sentiti Maestri non per essere banalmente emulati, né sovvertiti o desacralizzati, ma per essere rianimati attraverso un’infaticabile ricerca della propria unicità, della propria verità, per rinascere a vita nova. Se ne esce stremati, incantati, assorbiti, innamorati».

Cristina Muccioli

 

Sopravvivere a Picasso | Testo critico a cura di Cristina Muccioli

 

A dare il titolo alla nuova collezione pittorica – bene specificare l’ovvio, perché l’autore è anche poeta, scrittore di racconti brevi e drammaturgo – di Andrea Saltini è una grande tela che si chiama proprio così: Sopravvivere a Picasso.

Stremato, riverso su un piano in primo piano, quasi eccedente la tela, un giovane uomo che sembra citare Il sonno della ragione genera mostri di Francisco Goya, si lascia alle spalle Guernica di Picasso, omaggiata con il più virtuoso e talentuoso dei mimetismi riproduttivi. Gli volta le spalle, distoglie il suo sguardo, e al contempo lo lascia campeggiare. Prima di tutto vediamo e riconosciamo Guernica, perché Saltini ci obbliga a partire dal fondo, non dal vicino ma dal principio, da lontano. Una lontananza ribelle e orfana della piramide prospettica che per quasi cinquecento anni ha dato un ordine al mondo, agli affanni, alle sue insensatezze, rendendo disciplinatamente più piccole le figure dello sfondo. 

Picasso per Saltini è inaggirabile, è un pungolo che lo ha fecondamente tormentato ‘tardi’, dice rammaricandosi di averlo sottovalutato da bambino e da ragazzino. Piccola e sincera confessione che ci fa sorridere, ma che va presa seriamente. Questo autore è tra quelli che non hanno esattamente scelto cosa fare da grandi, ma sono stati scelti ancora prima di saperlo, di pensare all’arte come ‘mestiere’, o più aridamente come ‘professione’. 

Non potendo circumnavigare chi ha traghettato il Novecento nella modernità con la violenza di un trauma, Saltini lo affronta e non ne esce vincitore: ne esce. Ed è già molto, quando ci si confronta con lo smisurato, con l’iperbole della figurazione che solo stravolgendola salva l’arte dalla capitolazione sotto l’avanzata implacabile dell’elettricità, delle nuove tecnologie del cinema, della fotografia, della macchina che registra la realtà molto meglio di qualsiasi demiurgo amanuense dell’immagine. 

Allo sconforto impreparato, prepotente e risentito del collasso della pittura, Picasso reagisce. Risponde brandendo il pennello come un’arma. Non salta neanche una fase prima di indossare la maschera guerriera del rivoluzionario, dell’innovatore sismico. Anche questa è una lezione di storia. Prima la disciplina della mimesi, la certezza riconosciuta e acclamata di saper rifare il mondo come un dio creatore. Poi la svolta senza rimpianti, le spalle girate alla resa naturalistica, alla verosimiglianza. Dopo i ritratti (la madre, l’occhio cerulo e opaco della prostituta anziana, la degente grave tra un medico distaccato e un prete impotente e premuroso), gli Arlecchini infanti e i Pierrot anemici in conflitto insanabile: il costume vivacissimo a rombi colorati e gonfio come insufflato di gas, come una corazza incongrua, stride con le schiene ricurve e gli infantili sguardi smarriti, depositi sedimentari di un mal di vivere che non è mai troppo presto assaggiare. 

Intrusi fuoriposto e fuori tempo, cresciuti ma immutati nella sostanza truffaldina e bonaria di chi è maestro in sopravvivenza, camaleonti che si mostrano, come gli angeli, solo ai puri di cuore, gli Arlecchini in buona compagnia di coboldi e altre creature del mondo di mezzo, fanno capolino quasi non invitati anche nei quadri di Saltini. Per esempio: uno tiene un bimbo per mano parla con un corpulento figuro dal ventre molle e prominente, inguainato in un costume rosso fuoco. 

Sul capo un vistoso cappellino a tre punte. Un misterioso sacco bianco sulle spalle e una mano sul fianco con aria un po’ svagata e fiacca, come fosse e stesse facendo qualcosa di noiosamente normale. Dietro di lui un portatore che pare fatto di niente, perché il bianco del suo costume attillatissimo si lascia intridere dal giallo maturo di un campo secco di fine estate. Accanto un altro bambino senza tempo che pare sorridere alla nostra incredulità, con i piedi calzati in ballerine a punta nere, le estremità voltate all’esterno. 

In primo piano, due bambini che sono franco realismo e impossibilità insieme: hanno fattezze molto comuni, sono vestiti come i loro coetanei oggi, ma sono in bianco e nero. La loro pelle lo è, le loro mani, e somigliano al bianco lattiginoso del cielo che contraddice l’estate. Uno di loro, sigillato nel suo stupore, nel suo spavento, affida la sua testa reclinata alla spalla e alla presa accogliente e salda dell’altro. C’è chi si fa carico dell’altro e lo fa ad ogni età, per segreta e ignorata vocazione. C’è chi offre tutte e due le mani a contenere lo smarrimento dell’altro che, altrimenti, non sarebbe solo, ma solo con i suoi fantasmi.

La figurazione di Saltini è esperta, certa – nessuna fase preparatoria, nessuna falsa partenza sulla tela o sulla tavola: lui col pennello disegna – allenata da un instancabile stare in esercizio da quando il demone della vocazione artistica insidia, seduce, porta per mano e strattona, ostacola e mette alla prova, glorifica ed esaudisce le sue preci innamorate sin da bambino. Il tratto è preciso e morbido al contempo, deciso e fulmineo ma anche carezzevole e accennato come il passo di un ballerino che, data la padronanza piena dei suoi arti, può irrompere sulla scena o vagheggiare appena il tremito, il sussulto di un muscolo. In tutti i suoi quadri horror vacui e pleni si contendono le campiture. Si alternano i momenti agglutinanti a quelli rarefatti, porzioni coagulate ad altre placentari, stemperate, stinte: “io lascio scaricare il pennello”, chiosa l’autore non richiesto e quanto mai svelativo. Sta parlando dei suoi grigi, del modo che ha scovato – che il demone gli ha sussurato – per creare il suo, per sentirlo suo e parlare la sua lingua. Cita le lingue ma non i dialetti degli altri, quindi niente colori già fatti, né spiccio mescolamento del nero col bianco. Elogia, invece, la stanchezza del nero, l’arsura del pennello che, generoso nel rilascio di tanto pigmento sulla tela, ora non può che sbiadire. 

Proprio in tempi superprestativi nevroticamente euforici, a pezzi per stare sul pezzo, dopati dagli integratori alimentari per ogni più fievole minaccia di fiacchezza (psichica, emotiva, post-influenzale, pre-menopausa, peri-lavorativa, stagionale, sessuale, senile, infantile e genitoriale) Saltini scopre l’estetica dell’affaticamento, della debolezza, dell’esaurimento. Il suo grigio, fatto di molte nuance e consistenze, nasce dalla resa del nero che, depotenziato, ha altro da dire e lo dice meravigliosamente. 

Nobilissima, elegante, negletta anche se insuperata la tradizione  della grisaille, o grisaglia, dal francese gris, grigio. Prediletta dall’ascetismo pudico del Cistercensi del Dodicesimo secolo, raccomandata da Cennino Cennini nel suo Libro d’arte dei primi del Quattrocento, definitivamente suggellata nel 1568 nelle celeberrime Vite di Giorgio Vasari, la tecnica della grisaille è riconosciuta come la migliore per la resa del chiaro – scuro non soltanto nei dipinti colorati, ma anche nei disegni e nelle opere monocromatiche, soprattutto in quelle che per soggetto hanno una scultura o un cameo. Peter Paul Rubens venne richiesto dall’antiquario francese Nicolas-Claude Fabri de Peiresec di dipingere un cameo antico “en grisaille et non en couleurs”. Prima della declinazione astratta del Ventesimo secolo con Jackson Pollock e Joseph Albers, dopo la devozione per i bianchi e i neri del Suprematismo di Kazimir Malevič con il Quadrato nero su nero del 1915, anche Picasso, fronteggiando come si diceva all’inizio l’inedito, sbalorditivo movimento impresso alle immagini dai primi film in bianco e nero sin dall’ultima decade dell’Ottocento, predilige la palette dei grigi: doveva tenere il passo con la percezione comune della gente che veniva raggiunta, come mai prima di allora, da notizie scritte e corredate di scatti in bianco e nero, annunciate e urlate a ogni angolo di strada. Quel che accade è trasmesso così, in rapidità crescente, con edizioni mattutine e serali, e senza colori. 

Tra accadimento degli eventi e la loro conoscenza quasi non c’è più dilazione di tempo. E Picasso fa accadere la pittura, la decortica dei colori e la rende ‘news’, oltre che ‘new’. Guernica, del 1937, è questo, ed è arte. Le notizie del mattino sono già vecchie il pomeriggio. Quel che succede al mio vicino, nel mio quartiere, resta più interessante di un evento apocalittico accaduto in un’altra nazione, questa è la regola non scritta dell’informazione. 

Picasso non è un giornalista, è un artista, e in Guernica accoglie ogni strage passata e futura, ogni inflizione di dolore innocente dall’alto, ogni abominio di una violenza agita senza nemmeno rispettare i codici militari, sulla pelle dei civili. Guernica non ha niente di quella cittadina bombardata vilmente nell’aprile del Trentasei dalla Luftwaffe. Non c’erano tori né cavalli trafitti, né bombe sganciate in cielo, né soldati inutilmente equipaggiati per la lealtà di un combattimento corpo a corpo di una lama che finisce a terra, spuntata, né lampadine saettanti dardi geometrici della più sinistra delle luci. 

Di Guernica c’è il titolo, c’è il nome, perché se ne possa dare almeno uno alla ferocia. Ѐ proprio con la grandezza universalizzante del pittore che non si piega nel cascame retorico-diaristico delle sue privatissime vicende né di quelle storicamente circoscrivibili, e quindi archiviabili, che Andrea Saltini si misura, coraggiosamente e doverosamente, dichiarando in primissimo piano il suo sfinimento, quello che conoscono bene i musicisti quando, proprio per esprimere se stessi alla massima potenza suonano la partitura scritta da altri. Quel personaggio riverso di spalle di fronte alla rievocazione fedelissima, azzardatissima e riuscitissima di Guernica, è l’attestazione della permanenza nell’atto della propria sparizione, quando si scivola, irraggiungibili e non interpellabili, non indagabili nello sguardo, nel deliquio spossato del sonno, della strematezza. La stessa del pennello scarico. 

 

Da Nicola Tessla ad Arthur Rimbaud, da Elvis Preasly agli ipertrofici lottatori di Sumo, dalla fanciulla con ghepardo che leggiadramente strizza un occhio alle sue antenate raffaellesche con unicorno e un altro alla selvatichezza indomita e fascinosa e avvenente prediletta dall’industria glam, Saltini decontestualizza e rinomina. Destoricizza per far rinascere a vita nova miti e personaggi folklorici che rischiano l’oblio, ma poi preleva dalla vita concreta e limitrofa volti che rende archetipici, mondiali, assoluti: il soldato, il poeta, l’uomo che piange, sono tutta la sostanza emotiva, esistenziale, sono l’anatomia e lo sguardo sfidante  e sempre troppo giovane di tutti i militari del mondo, di tutti i rimatori e i parlatori in versi, di tutti i disperati allagati dal loro stesso umore acqueo. Eppure, a farci appena caso, li possiamo incontrare per la strada.  

Non è dato sapere perché soffre quel piangente e non è dato sapere perché in generale. Il dolore non si spiega. Si può solo condividere.  

In Unga Untnamare till Svergies tron i ӧverläggning, ovvero Giovani contendenti al trono di Svezia in consultazione, riprende rinfrancato il corpo a corpo con le argille, i gessi, gli inchiostri cinesi, e tutta l’alchimia che l’artista ha distillato al buio, nel suo studio protetto dall’invadenza del mondo esterno come sono schermati i suoi occhi, con l’altolà di due spropositate e convesse lenti da sole viola. Come rispondeva piccato Friedrich alla pretenziosità di Goethe che esigeva ritratti e situazioni pedestremente ricalcati sulla realtà retinica, “il pittore deve dipingere quello che ha visto nelle tenebre”.  

Inserti tattici e dosati di colori vitaminici e fluo rompono il registro pacato e assorto del bianco e nero rendendo ancora più enigmatici e interroganti personaggi, contesto, sfondo. L’ostilità di una lingua che non si lascia indovinare da noi neolatini nemmeno per tentativi etimologici, essendo di ceppo germanico, avverte lo spettatore che non gli è dato di capire. Tra le menzogne più irritanti e qualunquiste c’è questa: che il figurativo almeno è chiaro, e si capisce subito guardandolo. A rinforzo di dabbenaggine: gli antichi non facevano tanto i misteriosi. Ancora oggi i conati ermeneutici per analizzare la Flagellazione di Piero vanno frustrati e archiviati nella rubrica ‘ipotesi’. 

C’è un ragazzino occhialuto e seminudo, coperto da un bislacco paio di braghe corte e paffute come Diogene il Cinico poteva vestirsi con una botte, ricavate dalla ben nota borsona dell’Ikea, blue-Ikea, timbro coloristico più che esatto che, insieme al giallo delle scritte, il pittore cattura perfettamente con le sue sperimentazioni di materie est/ovest, nuove e antichissime. Perché quel contenitore è così facilmente riconoscibile? Perché ci è così familiare eppure è scelto come elemento denotativo di un popolo preciso, che ancora riconosce una monarchia, benché defilata e sottotraccia rispetto all’esuberanza brit, perché?

E ancora, perché il suo contendente – lo si intuisce dalla corona puntuta sul capino – è un pettoruto uccellino di bosco, gonfio e grazioso, rarefatto rarefatto e sbiadito come un’immagine mal conservata su un vecchio rotocalco? 

Alle spalle dei due e di uno svolazzo coreografico di una colomba al neon, divampa un incendio in un antica e maestosa dimora. Mediano, si staglia un fascio fitto di linee bituminose che si accendono di bagliori fucsia. 

Ecce puer, ecco il bambino irriverente e libero che riconosce negli animali i suoi rivali e i suoi alleati, indifferente alle sorti rovinose di un habitat culturale mercificato fino all’osso che, continuando bulimicamente ad autoalimentarsi, non ha nutrito anche il pianeta, dando fuoco al futuro delle nuove generazioni. 

Anche qui, in tanta onirica e surreale inventiva, il rimando a consuetudini compositive che hanno fatto storia e immaginario collettivo sono raffinatamente evocate. Da Dürer a Mantegna, da Tiziano al Bellini, dai Fiamminghi ai Lombardi, la natività del nuovo Re è affiancata da rovine e ruderi di una classicità che ha stordito per enfiagione, per incapacità di rinnovarsi, e di andarsene in grande stile, a testa alta. 

Come Saltini riesca a pervadere il tutto di ironia leggera, poi, è pure incantesimo.    

 

Cristina Muccioli

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