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PAGINE D'ARIA. Il tesoro espressivo del corpo
testo critico di Cristina Muccioli

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Pagine d’aria. Il tesoro espressivo del corpo

Alessandra Calò, Giuseppe Giuranna, Nicola Della Maggiora

Complesso San Paolo - Sala del Leccio, Modena

Presentazione: sabato 16 settembre ore 17.30 e ore 21.00 alla presenza degli artisti e dei curatori, con performance Visual Vernacular dell’artista Nicola Della Maggiora.
È previsto servizio di interpretariato L.I.S. per il pubblico non udente.


sabato 16 settembre 2023
ore 17.30 presentazione a cura di Crisitna Muccioli alla presenza degli artisti

a seguire, performance VV (Visual Vernacular) a cura di Nicola Della Maggiora
 

Pagine d’aria. Il tesoro del corpo

 

Parla con le mani, Giuseppe Giuranna, con le braccia, con la postura della testa e del collo, con la mimica degli occhi e delle labbra. Per dire Visual Vernacular distende indice e medio, piega pollice, anulare e mignolo. Lo fa due volte, con ciascuna delle mani.

Un gesto divenuto noto e familiare con Winston Churchill, che mimò la V una sola volta, per proclamare “Vittoria!”, Victory, Victoire in francese, e Vrijheid (libertà) in fiammingo. E tutti, proprio tutti, capirono. Perché tutti parliamo con il corpo intero, non solo con le corde vocali, e ascoltiamo anche con gli occhi. Quegli occhi che in noi umani hanno ristretto l’iride colorata attorno alla pupilla lasciando la sclera bianca. Con questa operazione di design evoluzionistico, ci è sempre chiara la direzione dello sguardo altrui, ma anche la sua intensità, l’espressività che gli ha guadagnato la qualifica nobile di ‘specchio dell’anima’.

Quando diciamo ‘parola’, pensiamo a quella parlata, udita, urlata, bisbigliata, ritmicamente accentata, metrica, poetica, prosaica, cantata e quindi sempre udita. Oppure a quella stampata, digitalizzata, scritta a mano, incisa, e quindi sempre letta. Una generalizzazione cominciata duemilacinquecento anni fa in Grecia, con un traumatico passaggio dalla civiltà orale all’era della scrittura, una rivoluzione tecnica prodigiosa, violenta per effetto omnicomprensivi (con la scrittura posso scrivere una formula matematico-geometrica e una tragedia, un preziario, un registro di carico navale e una lettera d’amore, un trattato filosofico e una preghiera) e straniante per un’implicazione cui non pensiamo più, ma che all’inizio dovette essere straniante, disorientante. Con la scrittura affidata a un supporto, quale che sia, dalla tavoletta di cera al papiro, dal muro dei writer - paleolitici e antropocenici - alla carta patinata o alla pergamena, non c’è necessità della presenza dell’orante, dello scrivente. Il corpo, il nostro inaggirabile consistere, apparire, vivere e morire, è diventato completamente superfluo. Le parole e le cose hanno preso a separarsi. Se chiedo che qualcuno mi passi Platone, mi aspetto mi portino I Dialoghi, non le spoglie di Platone. Poco più di due decine di segnetti, quelli alfabetici, hanno trascritto un universo mondo di discorsi, pratiche sociali, religiose, politiche, culturali, cognitive.  

Non si fa mai caso al supporto della scrittura, solitamente lo schermo vitreo del telefonino o del computer oppure il foglio di carta, anche perché è facilissimo reperirlo. Anche, perché c’è un altro sortilegio agito continuamente dalla scrittura, bulimica di corpi: quello di cambiare lo stato del supporto da sé stesso a nulla. Lo nientifica, lo rende invisibile. Se un notaio deve redigere un atto chiede un foglio di carta. Una volta terminato, non ci chiederà di firmare il foglio di carta su cui l’atto è scritto, ma di firmare l’atto. C’è, però, un altro supporto, preziosissimo, irriducibile, non disponibile alla sparizione benché invisibile: l’aria. Quella che respiriamo, quella che i vegetali sul nostro pianeta hanno reso foriera di vita, quella che trasporta le onde sonore e ci permette di percepire i colori, quella che scrive la formula irriproducibile dell’acqua (due atomi di idrogeno e uno di ossigeno), ma anche quella in cui i nostri gesti, le nostre posture, scrivono pagine senza fine, pagine di inizio della nostra comunicazione, del nostro intenderci, fraintenderci, chiarirci, indicare, e imparare a fare comunità, quindi a diventare umani. Nessun umano fuori della propria comunità, nessun umano senza linguaggio, nemmeno l’eremita che, prima di nominare, alla nascita è stato accolto, accudito, nominato. E prima di essere parlata, la parola è stata mimata, drammatizzata dal corpo in un cammino di segni somatici sempre più numerosi, più specifici, più insufficienti al nostro voler chiedere, organizzare, descrivere, annunciare, invocare, celebrare, convenire di andare a caccia e di dare sepoltura ai morti - cioè a corpi ‘inerti’, incapaci di gesto e movimento, il contrario di ‘arte’ -, di salutare il sole al suo sorgere, di dire ‘sole’ ed essere intesi da tutti gli altri sollecitando le loro reazioni, emozioni, pensieri, diventando ciascuno un io di quel tu, di quel voi, di quel noi. Il biologismo, e non la biologia, riducono alla comparsa dell’osso ioide nella specie sapiens del genere Homo la possibilità di articolare un discorso complesso e arricchito, a livello fonatorio, dalla pronuncia delle vocali. Come se un bel giorno quell’osso ci fosse spuntato in gola, per miracolo o per magia, per caso, e non fosse stato invece il risultato graduale, faticoso, di un progressivo adattamento della nostra specie a sempre maggiori bisogni e specializzazioni richieste dall’interazione tra noi e tra noi e l’ambiente. Anche sospendendo il discorso sulla ‘questione ioide’, troppo poco vexata da spiegazioni semplicistiche che non rendono giustizia all’immane e minuzioso lavoro dei paleoantropologi, abbiamo certamente incarnato nel corpo e nei gesti il nostro linguaggio. Come ha mostrato dettagliatamente Alfred Kallir, ogni segno alfabetico moderno, solo per fare un esempio criticamente stabile, deriva dalla schematizzazione semplificata di movenze rappresentate artisticamente di braccia e gambe, di parti del corpo colte nella loro forma simbolica e allegorica rispetto ad altre forme naturali. Tutto in noi umani era significante e significato, era parlante prima della parola parlata. Chi non usa la voce perché non può udirsi, come i sordi, è ancora iscritta e iscritto in questa grandiosa, arcaica, umanissima tradizione espressiva.

Se ne accorse Leonardo da Vinci, acutissimo osservatore della realtà tutta, soprattutto di quella marginalizzata, ritenuta indegna di ricerca e riflessione. Scrisse nel suo Trattato della pittura: “Se le figure non fanno atti pronti, i quali con le membra esprimano i concetti della mente loro, esse figure sono due volte morte, perché morte sono principalmente perché la pittura in sé non è viva, ma esprimitrice di cose vive senza vita, e se non le si aggiunge la vivacità dell’atto, essa rimane morta la seconda volta. Sicché dilettatevi studiosamente di vedere in quei che parlano, insieme co’ moti delle mani, se potrete accostarli e udirli, che causa fa loro fare tali movimenti. Molto bene saranno vedute le minuzie degli atti particolari appresso de’ mutoli (…). Imparate adunque da’ muti a fare i moti delle membra che esprimano il concetto della mente de’ parlatori”. La sua dichiarazione è tanto chiara quanto audace e illuminante: è il gesto delle mani a dare pregnanza e visibilità al pensiero del parlante, è quel gesto che il pittore deve meticolosamente studiare e riprodurre nelle sue opere, e quel gesto è massimamente espresso nel parlare con le mani dei sordomuti che raccontano con il corpo, così come dovrebbe accadere in ogni immagine inanimata e tacita.

Ribadisce poi: “Le figure degli uomini abbiano atto proprio alla loro operazione, in modo che vedendole, tu intenda quello che per loro si pensi o si dica; i quali saranno bene imparati da chi imiterà i moti de’ muti, i quali parlano con i movimenti delle mani, degli occhi, delle ciglia, e di tutta la persona, nel voler esprimere il concetto dell’animo loro (…)”. I sordi e i sordomuti per Leonardo animano il teatro muto della quotidianità, inscenato nella coreografia privilegiata dei parlanti come abilità inventiva e ammirevole di farsi compresi attraverso la mimica del corpo come attore integrale, per non essere esclusi dalla comunità.

Non siamo forse tutti sordi davanti a un quadro, a un’immagine? “Imparate adunque dai muti”, segnala il genio di Vinci, facendo di tutti noi, sé compreso, un loro allievo, un loro apprendista, affinché si possano cogliere più messaggi, più significati, più pensiero espresso anche in una figura statica.

Se ne ricordano senza saperlo tutti i bambini, che siamo sempre lieti di veder rispondere al nostro ciao di dita aperte e chiuse, al bacio spedito in volo sul palmo della mano, al ditino che affonda nella guancia quando gradiscono una pietanza, quando indicano orgogliosi con le dita quanti anni hanno, felice di aggiungere un dito alla conta gestuale al compleanno dopo. Crescendo, ci insegnano a non gesticolare, a non accompagnare il nostro parlare con i gesti: è volgare, appare grottesco. Il corpo è sempre più ammutolito, velocemente ridotto a mezzo busto su uno schermo dall’accelerazione digitale pandemica, e sempre di più a pura emissione vocale: basta chiudere la videocamera, e appunto schermarsi dietro una sigla colorata su fondo nero notte. Sono a rischio le strette di mano e gli abbracci, forieri di virus e batteri, sopravvivono gli applausi, nell’economia dell’etichetta urbana, il segno della croce, gli immortali e sintetici gestacci tra automobilisti infurentiti dallo stress.

Ma quanto ha da dire il nostro corpo, quanto può! Il Visual Vernacolar di Giuseppe Giuranna, artista sordo, ce ne offre, in questo Festival dedicato alla parola, un saggio coinvolgente, emozionante, sorprendente. Per ignoranza quasi totale della Lingua Italiana dei Segni (L.I.S.) non distinguo una parola mimata dall’altra, non connetto sintatticamente, non mi aiuta la grammatica, eppure sono al mare. Anzi, per la prima volta in vita mia, sono al mare con tutta me stessa senza muovermi dalla mia stanza, mentre lo guardo in video. Se c’è un vocabolo onnipresente da un paio di anni è ‘inclusività’, da ‘in-cludo’, letteralmente ‘chiudo dentro’, ammetto nella mia cerchia. Sono io, con il mio non sapere, che chiedo inclusione. Non la sto offrendo dall’alto di una ostensiva benevolenza politically correct, a partire dalla bellissima idea di Maria Teresa Mori, ideatrice e co curatrice con me di questa performance per il Festival, all’attore Giuseppe Giuranna. La sto, invece, ricevendo. Pur non essendo all’altezza di queste parole parlate dalle mani, dalle braccia, persino ‘dai cigli’ per ricordare Leonardo, sono accolta da questo narrare gestuale, vibrante, drammatico (da ‘drama’, che in greco era ‘azione’), lirico, soave, agitato e poi placato, come accade alle onde con la regia del vento. Tutte le intonazioni ambientali, i suoni e i rumori, i tonfi e le ventate, affiorano nelle movenze del corpo e del viso dell’attore, riverberano sul nostro.

La regia, qui, di Alessandra Guidetti, è severamente semplice, sine plica, senza piega, senza nulla che sovrastrutturi un corpo parlante. La maglietta nera fatta indossare all’attore fa sì che il tronco sia assorbito nello sfondo, dando risalto al volto, alle braccia, alle mani eloquenti. Guidetti richiama registicamente il b/n dei film muti ma senza alcuna affettazione né tentativo pioneristico di effetti speciali, le scenografie predilette dal gramelot di Dario Fo, e i resti della statuaria classica al contrario: invece del busto deprivato di arti e teste cesellate nel marmo, qui resta l’arte degli arti, parole che non a caso appartengono alla stessa famiglia etimologica.

Riecheggiano i versi omerici del XII canto dell’Odissea, recitati per generazioni dagli aedi prima che il corpo si disincarnasse nella scrittura “Il vento era cessato, e un dio faceva dormire le onde”. Il repentino e inquietante cambiamento del mare, da agitato a calmissimo, faceva immaginare un’intercessione soprannaturale. Prima che le sirene tentatrici intonino il loro canto seduttore, il silenzio si impadronisce del mondo, cala sul mondo, ammansisce il mare. Giuranna, già immerso nel silenzio, è avvolto nel nero più impenetrabile, illuminato dal dardo caravaggesco di un faro dalla luce fredda che fa di quel corpo attoriale un approdo, un salvacondotto dall’oscurità del non detto, del non condiviso, del non narrato. Chiunque non abbia fatto parte di un racconto è sprofondato in quella notte, è fuori da quella luce salvifica. Da sempre, per sempre. D’altronde, che bisogno ci sarebbe per Ulisse di ascoltare il canto delle sirene che narrano la guerra di Troia? Che senso avrebbe dirne a lui che l’ha vissuta da protagonista, che ne è scampato, che disperatamente dopo vent’anni tenta di tornare a casa? Ulisse non vuole sapere della guerra, vuole sapere se è nel racconto, perché quella è l’unica sopravvivenza a garantire immortalità dentro e fuori un evento, dentro e lontano dal campo di battaglia. Si resta e si è esistiti quando resta il nostro nome, quando si racconta di noi, quando qualcuno fa memoria di noi. Senza racconto, scompaiono le sirene, noi, e anche il mare.

Alcuni di questi gesti attoriali performati da Giuranna sono stati fotografati, selezionati, isolati con la cura di chi salva e conserva, custodisce e rende grazie, da Alessandra Calò, artista internazionale da anni coinvolta e accolta sentitamente dalla sensibilità di chi pensa, collabora con e frequenta il Festival della Filosofia. Le sue immagini fotografiche non sono mai sature, né matericamente né tonalmente. Sono porose e fragili, piuttosto, fantasmatiche e accennate ma al contempo humus naturale dei dettagli, del non ancora, dell’appena, del quasi corpo vegetale, umano o cartografico colto nella sua dimensione metamorfica, umbratile ed epifanica.

Aliena da ogni intento di replica o di mimesi del reale, Calò offre il suo racconto per figure, le sue intercettazioni di palpiti epidermici, tendinei, muscolari. Sono stralci di discorso recitato dal corpo di Giuseppe Giuranna, stampati su una garza di seta che crea una meravigliosa, incantevole eco visiva con l’immagine stampata sullo sfondo, distanziata abbastanza da farsi scoprire da uno sguardo capace anch’esso di movimento: da lontano, da vicino.

Ode sussurrata alla ninfa Eco, punita sadicamente da Giunone, fraintesa e maltrattata dall’indifferenza opaca di Narciso. Qui Eco non ripete monconi di frasi, ma gioca leggera, in trasparenza preziosa di seta, a riverberare un gesto che fa segno, che in-segna a tornare al corpo, sgravati di saperi risaputi chiari e univoci, sentenziosi e definiti. L’artista ha costruito cofanetti da parete a contenere con gentilezza il tesoro di un corpo, che è anche nostro. Due gomiti poggiati sull’aria vestita di nero si slanciano nella verticalità lievemente obliqua degli avambracci, e del dorso delle mani che si sfiorano all’apice: siamo convocati in un abbraccio dove ogni ‘tu’spettatore si fa un ‘noi’ teatrale.   

Ci accorgeremo, di questo ‘noi’, anche con l’interpretazione performativa di Nicola Della Maggiora. A teatro, come è noto, non esiste la seconda, ma la replica della prima. Perché ogni volta, se rimettiamo al centro il corpo, la sua spontaneità, la sua assoluta unicità percipiente, cioè estetica, è come nessun’altra.

 

Cristina Muccioli

 

 

Alferd Kallir, Segno e Disegno, Spirali Edizioni, Milano, 1992

Leonardo da Vinci, Trattato della Pittura, II, pag. 112.

Odissea, Canto XII, vv. 165 - 169

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©Alessandra Calò

2023, callitipie su seta

installazione dimensioni variabili

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Giuseppe Giuranna

Artista sordo, si è formato alla scuola di recitazione dell’ENS di Palermo, con artisti sordi internazionali del calibro di Bernard Bragg, Joel Lienel, Debbie Rennie. Ha partecipato ad alcuni festival internazionali di teatro, come il Festival Nazionale di Teatro in Germania dove ha ottenuto dei premi nel 2004 per la regia di Martha e nel 2009 per la regia di Deafworld. Nel 1993 ha avuto un piccolo ruolo ne L’uomo delle Stelle di Giuseppe Tornatore, per poi ritornare al teatro. Dal 1985 lavora come attore e a questo affianca attività di formazione dedicata a Visual Vernacular. Insieme alla sorella Rosaria, ha pubblicato nel 2003 Sette poesie in Lingua dei Segni (Edizioni del Cerro). Vive a Berlino.

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Nicola Della Maggiora

Artista  sordo, attore e poeta toscano, uno tra i Lis performer più famosi d’Italia. Direttore del dipartimento Academy dell’Istituto dei Sordi di Torino, esperto del settore artistico e narratore in LIS e Segni Internazionali per Musei e Fondazioni, la su esperienza tocca anche il mondo del cinema e della televisione: è un anchor (telecronista) in Segni Internazionali su WorldSign Week di H3 World TV (Canada), è doppiatore LIS su Rai Yoyo, è l’interprete di una serie di brani musicali presenti al Festival di San Remo.
Per il suo impegno artistico ha ricevuto diversi premi e riconoscimenti.



 

Alessandra Calò

Artista e fotografa, sperimenta fin dall’inizio della sua carriera l’uso di nuovi linguaggi che le permettono di approfondire le tematiche legate alla memoria, all’identità e al linguaggio stesso della fotografia.

La sua ricerca è caratterizzata dalla riappropriazione e reinterpretazione di materiali d’archivio attraverso antiche tecniche di stampa off-camera.
Le sue opere ed i suoi libri d’artista fanno parte di importanti collezioni e vengono esposte in eventi internazionali, tra cui: Paris Photo, Unseen (Amsterdam), Photo Gaspésie (Canada), Ras Al Khaimah Art (Emirati Arabi Uniti), MoMA, Met Museum (New York).


 

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video realizzato nel maggio 2023

 

 


Giuseppe Giuranna, Alessandra Calò: artisti
Alessandra Guidetti: regia e montaggio
Andrea Gioacchini: direttore della fotografia
Maria Dellino: interpreti LIS:
Maria Teresa Mori, Piero Pagliani: coordinamento


 

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