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IL SILENZIO DELLA LUCE
Alessandra Calò

dal 18.05.2019 al 16.06.2019

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Giovane artista tra le più interessanti del panorama italiano, Alessandra Calò porta alla galleria Artesì una mostra in cui i suoi tre progetti più recenti si ricollegano uno all’altro in un unico racconto intorno alla ricerca dell’identità e al recupero delle memorie del passato.

Parlare di fotografia per definire il lavoro di Alessandra Calò è sempre un po’ riduttivo, perché se dalla fotografia parte, il risultato va molto oltre, attingendo agli ambiti della scultura e dell’installazione. Come accade nel progetto Secret Garden, presentato al pubblico come un paesaggio di scatole nere illuminate: una serie di lightbox dedicati a figure femminili del passato. Per la realizzazione, l’artista parte da lastre negative originali, recuperate nei mercatini, raffiguranti donne, bambine e ragazze. Persone sconosciute e consegnate all’oblio a cui Alessandra decide di restituire una storia anche grazie alla collaborazione di poetesse e scrittrici che dedicano a ogni figura un breve scritto. L’abbinamento con l’elemento vegetale (da cui l’ispirazione per il titolo), posto all’interno dei lightbox e visibile solo in trasparenza, dona nuove letture all’immagine, spezzando la continuità della visione ed enfatizzando la tridimensionalità di quei piccoli solidi scuri che si trasformano in vere e proprie “scatole nere” delle memorie perdute.

Ancora al passato – e in particolare a due pioniere della fotografia come Constance Talbot e Anna Atkins – fa riferimento il progetto Les inconnues. Qui, però, il percorso dell’artista è a ritroso. Partendo da volti femminili vintage trovati sul web, Alessandra costruisce lei stessa delle lastre in negativo, per poi stamparle su cristallo. L’elemento vegetale torna qui sotto una forma diversa, e duplice. Da un lato, isolato, va a sovrapporsi al viso; dall’altro, enormemente ingrandito, funge da pattern su cui la figura si appoggia, una figura che ingaggia con lo spettatore un suggestivo gioco di sguardi.

Kochan, infine, è il più strettamente fotografico tra i progetti in mostra, e anche il più autobiografico, anche se il viso e il corpo dell’artista – che qui si autoritrae per dettagli – è simbolo di un corpo universale. Ispirato alla dolorosa scoperta del proprio sé più autentico condotta dal protagonista delle Confessioni di una maschera di Yukio Mishima – da cui la serie prende il nome – il progetto vede la sovrapposizione dei frammenti della figura a una serie di vecchie carte topografiche dalla collezione della Public Library di New York. Mappe, però, che l’artista parzialmente cancella, di cui rende incerte le collocazioni e i confini, comunicandoci un senso di incertezza e di spaesamento.

Alessandra Redaelli

All’ombra delle fanciulle in fiore | testo critico a cura di Alessandra Redaelli

Quando nel 1839 viene resa pubblica dalla Gazette de France la notizia di una nuova tecnica per “dipingere con la luce”, il mondo assiste a un miracolo. Qualche mese dopo, poi, questa tecnica è analizzata nei dettagli nel corso di una riunione all’Accademia di Francia, e il pittore Paul Delaroche conclude il suo discorso in termini entusiastici, spiegando al pubblico che la scoperta di Monsieur Daguerre renderà un servizio immenso alle arti, ponendosi per loro come un supporto e non come una minaccia.

La fotografia nasce così, figlia di un’intuizione fulminante, dell’immensa ambizione di fermare il tempo e di un enorme equivoco: perché di nulla avrà più paura la pittura negli anni a venire di quanta ne avrà di quella macchina capace di riprodurre l’istante. Se vogliamo, possiamo anche ascrivere alla fotografia il merito di essere stata lei il primo e vero motore delle avanguardie. Se la radice delle avanguardie va cercata nella disubbidienza alla regola, non possiamo fare a meno di chiederci se un dipinto come Impression, soleil levant di Claude Monet (1872) sarebbe mai nato in assenza di un mezzo che, riproducendo fedelmente il reale, rendeva di fatto superflua la tradizionale pittura di paesaggio, aprendo la porta a emozioni e – appunto – impressioni. E da lì tutte le ricerche successive. Non è difficile immaginare Pablo Picasso che siede davanti alle ragazze di un bordello di Barcellona (l’artista si ispira a una casa d’appuntamenti del Carrer d’Avinyo, una strada della vecchia Barcellona, per il dipinto che poi passerà alla storia come Les demoiselles d’Avignon) e si domanda che senso abbia mai ora dipingerle così, come le vede, ammiccanti e discinte. E allora le guarda fisso con quegli occhi color carbone, le guarda fino a entrare dentro quell’immagine e spalancarla, scompaginarla, rendercela accessibile da tutti i punti di vista, come se noi fossimo al contempo davanti, di fianco e dietro di loro. Il cubismo che di fatto si fa nascere qui, su questa tela, nel 1907, altro non è che un terzo occhio che l’artista ci regala per guardare oltre. Un terzo occhio che la macchina fotografica non possiederà mai. E un discorso molto simile si può fare con il surrealismo, che per non competere nel racconto di ciò che si vede fuori, decide di andare a scavare dentro e di esplorare attraverso il pennello quei territori di cui Sigmund Freud, proprio in quegli anni, sta fornendo una mappa. E da lì all’espressionismo, al minimalismo, al concettuale più gelido.

E intanto la fotografia prosegue il suo cammino. Incerta dapprima e poi sempre più sicura sui suoi passi, per niente intenzionata ad accontentarsi di fare da supporto all’arte, ma ben decisa a trovare una propria strada. E di conseguenza la fotografia che incontriamo oggi, all’inizio del terzo millennio, è un mondo immenso e tentacolare. Dall’imponenza del ritratto encomiastico al sapore prezioso dello scatto rubato, dal crudo reportage giornalistico alle atmosfere patinate della foto di moda, dal paesaggio scientifico a quello lirico, dal nudo elegante all’erotismo esplicito, dalle sperimentazioni degli artisti alle sofisticate manipolazioni digitali. Così, a quasi due secoli da quella che è considerata la sua nascita, oggi la fotografia si guarda dentro e gli artisti cominciano a mettersi alla ricerca di qualcos’altro, per esempio delle radici. Quando tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta Jan Saudek si chiude nel suo scantinato a Praga per ritrarre modelli e modelle in abbracci lubrichi e in nudi torbidi e conturbanti, non fa solo un’operazione interessante sulla fotografia erotica, ma compie anche una ricerca preziosa intorno alla fotografia d’epoca, ritrovando, attraverso la scelta delle tinte seppiate poi rielaborate ad acquerello, l’atmosfera dei vecchi dagherrotipi. 

Alessandra Calò, che quando Saudek realizza i suoi baccanali onirici è ancora una bambina piccola, fa parte dell’ultimissima generazione della fotografia d’arte italiana, quella che guarda al mezzo fotografico non come uno strumento tout court, ma come un mondo da esplorare e sviscerare con lo scopo di farlo proprio e farne così scaturire qualcosa di unico. Il sapore vintage delle sue opere – mai “solo” foto, ma sempre qualcosa di molto più complesso e concettuale – forse l’avvicina per certi versi ad artisti come Saudek, anche se si sentono risuonare altre note. Per esempio quelle di Sophie Calle, poliedrica artista francese nata all’inizio degli anni Cinquanta che ha sempre usato la fotografia come uno scandaglio per esplorare l’interiorità. Anche Alessandra Calò fa suo questo bisogno tutto femminile di guardare dentro. E qui concedetemi una parentesi: parlare di artiste donne che fanno un’arte di carattere femminile, e dunque caratterizzata in un certo modo, non significa parlare di una minoranza o di una quota rosa, non significa – no! – che stiamo entrando in un terreno di emozioni romantiche, di accudimento e di bambini. Non necessariamente, almeno. Significa che l’artista donna possiede questo scandaglio sensibilissimo sull’interiorità, e possedendolo lo usa. Alessandra parla di donne perché, da donna, ne sa, e siccome ne sa ha ben chiaro come una ricerca intorno all’identità, al passato e alla storia sia tanto più interessante se condotta su figure femminili, perché la Storia – quella con la “s” maiuscola – di ruoli nel passato alla donna ne ha concessi pochi, e così le storie delle donne sono rimaste per lo più sepolte, riservate ai racconti verbali e ai diari, piccole vicende spesso eroiche, qualche volta nemmeno narrate, perché non parlavano di scoperte scientifiche che avrebbero cambiato il mondo né di guerre, ma parlavano – per l’appunto – di quelle cose che accadono dentro e che spesso, proprio da dentro, hanno il potere di modificare i destini. 

Le immagino così le protagoniste del suo Giardino segreto. Donne con un passato denso di storie che noi non conosciamo e non conosceremo mai, ma che loro hanno coltivato dentro di sé come un giardino segreto. Proprio quel giardino che Alessandra, con il suo lavoro, ha scelto di restituire. Parte da lastre originali negative recuperate nei mercatini, tutte lastre che vanno dalla fine dell’Ottocento fino agli anni Sessanta del Novecento, quando si smise definitivamente di usare quella tecnica. E già il fatto che si trovino lì, su una bancarella, consegnate al mondo, dà la misura dell’oblio a cui queste immagini – e dunque queste donne – siano state consegnate. Ma Alessandra le raccoglie, le fa sue. Scruta quei volti di cui coglie poco più che i lineamenti, di cui riesce a malapena a ipotizzare l’età, studia l’abbigliamento e immagina quale possa essere la provenienza. E poi avviene come un innamoramento, e una scelta. Nasce così l’installazione. Una scatola nera fa da scenario a questa immagine che improvvisamente ritrova vita e dentro, chiuso, visibile solo in trasparenza grazie alla retroilluminazione, un piccolo erbario, un ramo le cui foglie si sono raggomitolate su se stese, un legno modellato dal mare. L’esigenza estetica si sposa qui con la simbologia forte della scatola nera intesa come anima e memoria. Dentro quei pochi centimetri cubi d’aria la storia rivive e si ricrea secondo traiettorie nuove: possiamo immaginarci amori infelici che trovano un lieto fine, sogni finalmente realizzati, nuove svolte che le poetesse e le scrittrici chiamate dall’artista hanno raccontato in brevi scritti suggestivi, scritti che dormono nascosti in un cassetto a completamento dell’installazione. Visto in trasparenza, l’elemento vegetale crea un doppiofondo che diventa doppia lettura, un piacevole disturbo visivo che spezza l’immagine e la ricompone, aggiungendovi nuove ombre e nuove stratificazioni di senso. Una accanto all’altra, poi, le opere inventano dialoghi misteriosi, percorsi inaspettati che nella penombra ci fanno sentire forse un po’ indiscreti, talvolta furtivamente osservati. 

Particolarmente interessante nel lavoro di Alessandra Calò, al di là della sua inesauribile ricerca intorno alla persona, all’identità e – di conseguenza – al senso del nostro essere al mondo, è proprio il suo desiderio di recuperare oggetti e memorie, di recuperare un tempo altro e un mondo altro, di ricostruire narrazioni perdute, di ricucire vite strappate. E il suo essere profondamente radicata nel sentire contemporaneo la spinge a condurre questa operazione traendo dalla fotografia lo spunto per qualcosa di molto più complesso che dall’immagine spinge decisamente verso la scultura e l’installazione.

Ancora profondamente installativa, così, è la serie dal titolo Les inconnues, per la quale l’artista va a scavare fino alle origini della fotografia. Dedicata a Constance Talbot e ad Anna Atkins, pioniere del libro d’artista troppo spesso dimenticate, la serie parte ancora dalla figura femminile d’epoca. Qui, tuttavia, l’artista le lastre le costruisce da sé. E’ un percorso al contrario attraverso il quale mettersi sulle tracce di una tecnica antica e, impadronendosene, darle un sapore unico e squisitamente attuale. Alessandra parte dunque da una ricerca sul web, dove individua primi piani di donne e bambine del passato; poi, una volta scelto il soggetto, è lei a creare il negativo su lastra trasparente. Da lì avviene in seguito la stampa vera e propria, ai sali d’argento se quella che vuole ottenere è una tinta che viri tra il grigio e il nero, oppure ai sali di ferro per un effetto seppiato. E’ incredibile il senso di spaesamento che si prova davanti a questi oggetti dalla difficile collocazione, figli di una manipolazione originalissima, nati da un’intuizione geniale e dalla possibilità offerta dalle nuove tecnologie di viaggiare nel tempo. La stampa a mano su cristallo, scelta per l’effetto luminoso di trasparenza, porta a una serie di difetti voluti intesi a velare il volto con una patinatura che parla di un vissuto a noi sconosciuto; ma ciò che rende ancora più interessante il risultato finale è la scelta di Alessandra di introdurre anche qui l’elemento vegetale. Il petalo che va a nascondere parte dell’occhio come la più seducente delle velette o le infiorescenze che sembrano lì per adornare i capelli tornano poi ingrandite al massimo sugli sfondi, fino a creare pattern di venature che danno allo spettatore la sensazione di trovarsi davanti a qualcosa di vivo e respirante. Rispetto alle protagoniste di Secret garden, intorno alle quali abbiamo quasi l’illusione di poter immaginare una storia con dei personaggi e una trama, Les inconnues – anche in virtù di quei primissimi piani che a volte arrivano fino a negare alcune zone del volto – toccano nello spettatore corde meno logiche e più immediatamente emozionali. Davanti a noi i profili eleganti e i sorrisi appena accennati si animano di vita. In particolare quando l’artista ci consente di incrociare lo sguardo. L’atto di fissare gli occhi in quegli occhi fa perdere per qualche istante la sensazione generale dell’opera per concentrarsi lì, e in quel dialogo muto scatta il riconoscimento.

E’ invece un racconto sul sé quello alla base della serie Kochan, tra le tre in mostra quella che più strettamente si può definire fotografica in senso tradizionale. Partendo dal protagonista del romanzo di Yukio Mishima Confessioni di una maschera (dal cui nome la serie prende il titolo), Alessandra Calò decide qui di indagare su quello che rappresenta per ognuno il cammino alla ricerca della propria identità e sul bagaglio di incertezze, di errori e di dolore che questo cammino comporta. Sono il viso e il corpo dell’artista stessa questa volta a condurci, ma ritratti per dettagli, mai riconoscibili, presi a esempio di un corpo universale e di un bisogno – quello della consapevolezza del sé – assoluto e condiviso. Un occhio appena accennato, un’ombra nella quale riconoscere una narice, il contorno del viso a cui sono stati cancellati i lineamenti, la morbida superficie della schiena, la conca dell’ombelico, il triangolo del pube si sovrappongono qui a una serie di mappe geografiche antiche, quelle che la Public Library di New York ha messo a disposizione qualche anno fa. Le immagini rarefatte di spazi e confini dai quali i nomi sono in parte cancellati contribuiscono alla sensazione di incertezza e di fragilità comunicata da queste opere dove dominano incontrastati il bianco e la luce. Il percorso alla scoperta della nostra essenza più autentica e più profonda si rivela qui nella sua realtà di viaggio complesso e indefinito, per il quale non esistono mappe o – se ci sono – appaiono troppo vetuste o troppo incerte per darci un’idea reale dei sentieri da seguire o dei limiti da varcare. La consapevolezza, dunque, per Alessandra Calò è un obiettivo che non si raggiunge mai completamente, ma uno scopo al quale non siamo autorizzati a rinunciare, perché il rischio è quello di vedersi costretti a vivere nella falsità, dietro a una maschera, senza riuscire più ad avere contezza nemmeno dei confini del nostro corpo. E queste fotografie leggere come un soffio, inondate di luce, stampate su carta cotone e lasciate libere di fluttuare nell’aria, incerte come la nostra anima che cambia ogni giorno e cresce con noi, sono il suo contributo alla nostra fatica, il suo dono.

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